venerdì 27 febbraio 2015

Uno degli Italianski Karasciò

   Dedico questo post a mio padre Antonino, reduce di Russia. Mio padre fece parte del Reparto Autieri della Divisione “Julia”, 8° Corpo d’Armata Alpino in Russia, ARMIR, e fu combattente sul fronte del Don riuscendo a ritornare a casa dopo la tragica  ritirata dell’inverno del ’42-43. Fu fortunato. Quando il 10 Giugno 1940 l'Italia entrò in guerra mio padre era poco più più che ventenne: era nato a Trapani il 16 Ottobre 1919. Chiamato per il servizio di leva nell'estate del '40, era stato assegnato all'11° Centro Automobilistico di Udine dove venne addestrato all'uso del camion per i trasporti dell'esercito regio.


Udine, Settembre 1940, Anno XVIII
Camion dell'11° Centro Automobilistico

   Dopo che l’1 Luglio 1942 fu costituito il 10° Reggimento Autieri, entrò come autiere nell’Autoreparto Pesante in servizio all’8° Armata, e quando nel Ferragosto del ’42 la Divisione “Julia” partì per la Russia anche il Battaglione e la Compagnia in cui mio padre militava partì per la guerra, avendo come destinazione il fronte orientale.
mio padre in divisa da militare
   Ho cercato di ricostruire l'itinerario della sua andata in guerra: raccontava che alla partenza era stato fornito di viveri a secco, per lo più scatolette di carne e gallette e che il viaggio di andata lo aveva affrontato in treno. In genere, quando arrivavano sul posto designato gli autieri scaricavano i camion dal treno e si incamminavano in colonna alla zona di guerra.
   Dopo la battaglia di Crimea era iniziata da parte dei tedeschi l’avanzata in Ucraina e la conquista di Odessa: ricordo che mio padre accennò più volte a questa città, e sicuramente perché partecipò alle operazioni di guerra di quei giorni. Fu da lì che in seguito deve avere avuto inizio il suo avvicinamento al fronte del Don dove si concretizzò la sua partecipazione più attiva da combattente.
  Dai suoi racconti di guerra ho appreso cose terrificanti: di combattimenti, di uccisioni, di stenti e di fame che hanno profondamente colpito la mia emotività e quella degli altri familiari. Purtroppo, durante l’ascolto non ho mai preso appunti, segnato date o conservato nomi, e molti particolari sono andati perduti, ma ero inconsapevole che un giorno potessero tornarmi utili (ancora oggi, a distanza di settanta anni, vengono pubblicati postumi manoscritti di reduci di Russia ).


   Vagamente ricordo qualche episodio isolato come quando la mattina di Natale del ‘43, assieme ad altri commilitoni, con i quali aveva patito la fame per giorni, si saziò in un campo di cavoli. Subito dopo venne fatto prigioniero. Ebbe più volte l’aiuto della popolazione russa che si mostrò sempre, così diceva, ben favorevole verso i soldati italiani, nonostante fossero nemici. Nei villaggi più interni i russi non sapevano neanche che fossero in guerra e contro chi, anzi chiedevano agli italiani cosa facessero lì! Secondo le testimonianze dei sopravvissuti nel lungo viaggio della ritirata l’aiuto dei civili fu determinante: nelle loro isbe fu possibile ripararsi dal freddo e ricevere un po’di cibo, anche se ne avevano poco pure i russi.
   La lunga battaglia di Stalingrado, nel gennaio-febbraio del ’43,  segnò una svolta radicale nella guerra e sia l’Armata tedesca che quella italiana furono costrette a ritirarsi. Dal fronte del Don la marcia di ritirata fu lunga e disastrosa perché si verificò in pieno inverno e migliaia di soldati perirono per questo. Lunghe colonne di prigionieri, tra cui mio padre, a piedi nella steppa a 40° sotto zero, furono costretti ad avviarsi ai campi di prigionia.
   Durante i giorni del ripiegamento raccontava che i russi spingevano i prigionieri, costringendoli a tenere le mani alzate, gridando - davai, davai!- (cammina in russo) e battendoli sulla schiena coi calci di fucile; nelle perquisizioni prendevano orologi, portafogli, cappotti, scarponi soprattutto se si trattava di “valenki” (feltro pressato e incollato a forma di stivaletto che salvava i piedi dal congelamento).
   I racconti di mio padre erano più toccanti sulle sofferenze patite da prigioniero. Come molti subì un principio di congelamento all’arto inferiore (non ricordo se al destro o al sinistro). Alcuni prigionieri morirono durante l’interminabile cammino (i morti venivano lasciati insepolti sulla neve), e una volta anche lui fu sul punto di cedere: mentre i russi spingevano a forza la colonna di prigionieri non esitò, completamente privo di forze, a offrire il petto al nemico per farsi uccidere. Il morale era basso e chi resisteva era mosso dalla fede del ritorno a casa; mio padre mi confidò che nei momenti più tristi teneva tra le mani la foto di sua madre (che portava sempre con sé).
   Spietati con i tedeschi (vide soldati disposti in fila per terra con il ventre squarciato), i russi non furono mai ostili con gli italiani e furono molti gli episodi di fraternità umana che si verificarono, mio padre stesso ne fu partecipe, ad esempio quando venne raccolto infreddolito e affamato da una anziana russa dentro la sua isba che lo riscaldò e lo sfamò per qualche giorno. La popolazione russa  provava simpatia istintiva verso quei giovani soldati italiani (italianski carasciò-italiani brava gente-, li chiamavano così) per i quali offriva ospitalità. 
   Il ritorno dal fronte russo ha segnato certamente una tappa sofferta nella vita di ciascun soldato e ogni sopravvissuto deve essere uscito diverso da quella terribile esperienza. I superstiti, senza ombra di dubbio, compreso mio padre, ne portarono nel fisico e nell’anima  i segni per tutta la vita. Senza voler dare alcun giudizio, quella della guerra in Russia, secondo gli storici e non solo, è stata una pagina tremenda di storia: noi avevamo aggredito la popolazione russa senza motivo, eravamo lì a combattere contro genti che nulla ci avevano fatto, la guerra quindi fu ingiusta e, per di più, a differenza della Germania, l’Italia l’affrontò in condizioni non all’altezza sul piano organizzativo e della preparazione militare.
   Per quanto riguarda le perdite, durante la battaglia sul Don la ritirata (11 dicembre 1942-20 marzo 1943) le cifre ufficiali parlano di 85.000 militari, e di quasi 30.000 tra feriti e congelati che riuscirono a rientrare in Italia. Il contingente inviato in Russia da Mussolini ne contava 230.000.
   Con la distruzione dell’ARMIR ebbe termine la partecipazione italiana alla campagna sul fronte orientale. A partire dal 6 marzo i sopravvissuti vennero rimpatriati e gli itinerari di ritorno alcuni reduci li hanno ricostruiti con particolarità di dettagli in svariate produzioni letterarie che sono entrate a far parte della memorialistica di guerra e di prigionia.
   In Ucraina era stato costituito un Centro di raccolta a Dnepropetrousk per reduci e superstiti dell’ARMIR e alcuni di essi furono avviati all’Ospedale Militare per essere curati: mio padre fu curato di polmonite.
   Il viaggio di ritorno in patria avvenne in treno: dalla Bielorussia attraverso la Polonia, la Rep. Ceca e infine l’Austria. Delle sfortunate divisioni, la Cuneense, la Julia e la Tridentina che rientrarono in Italia, reduci dalle steppe russe, qualcuna si ricompose qualcun’altra fu soppressa.
   I sopravvissuti rientrati furono pochi, alcuni andarono a combattere con i partigiani, ma molti cercarono di tornare a casa. Tutti i reduci rientrarono in Italia dal passo del Tarvisio, da qui mio padre, dopo essersi fermato a Vienna, iniziò il viaggio di rientro a casa attraversando tutta la Penisola. Né io né mia sorella siamo riuscite a ricostruire il percorso di ritorno, eppure deve avercelo raccontato!
   Arrivato a Marsala papà venne riconosciuto e la notizia del suo imminente arrivo venne riferita alla famiglia che ormai lo credeva disperso. Da Marsala a Trapani (sono 30 km), per un voto alla Madonna di Trapani, il tragitto lo percorse a piedi. Raccontavano i miei zii che a casa di mio nonno i festeggiamenti per il ritorno del figlio reduce di Russia fu un evento: come voto di ringraziamento nelle famiglie più devote del trapanese era ed è tradizione, per il 19 Marzo, preparare il cosiddetto “invito di San Giuseppe”. Si tratta di un convito di beneficenza con numerose pietanze in cui vengono invitati tre bambini poveri che rappresentano la Sacra Famiglia.




Tengo conservati un bauletto di legno (una specie di zaino che i militari portavano a spalla) e una borraccia (senza rivestimento) che serviva per l'acqua, la pagella scolastica della classe quinta (1930-931, anno IX), in cui risulta che era iscritto all'Opera Nazionale Balilla.

Per una conoscenza completa sui reduci di Russia consiglio: http://www.unirr.it/ 

Nelle mie ricerche ho trovato una testimonianza di un reduce la cui vicenda mi è sembrata simile a quella di mio padre (perfino il fotografo è lo stesso!): http://bigsteps.net/bigsteps/ded_angelo.htm 




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